Westuff

Roba d'occidente. La rivista della Firenze capitale degli anni ottanta.

Da Arte a Firenze 1970-2015, a cura di Alessandra Acocella e Caterina Toschi, Quodlibet 2016.

Il primo numero di «Westuff» è presentato nel dicembre 1984 presso la Galleria Schema, uno degli spazi allora più interessanti per le proposte di arte cintemporanea. Il significato del titolo e i propositi della rivista sono subito dichiarati nell’editoriale: «”L’Occidente” o “le cose dell’Occidente”, spiegando alla lettera il nome di questa rivista, è un’illimitata distesa geografica che coincide con una sontuosa regione del pensiero.

È un modo di intendere gli orizzonti sconfinati di un luogo privilegiato, dove tutte le culture si toccano, si confrontano, si mescolano per dare forma a sempre nuove immagini del vivere e del pensare. Il territorio dove non si perde il concetto dicotomico di Oriente e Occidente, ma il luogo “necessario” dove questi due termini si incontrano».

Da Bagliori. Storie di editoria alternativa in Italia, di Saul Marcadent, in L’Italia vista dalla moda 1971-2001, Marsilio 2018

Nella scena underground, la centralità di Milano e Bologna, rispettivamente all’inizio e alla fine degli anni settanta, cede il passo a Firenze a partire dalla prima metà del decennio successivo. Parte da qui, ma con lo sguardo tenacemente rivolto alla scena artistica e alla moda di ricerca italiana e internazionale, l’avventura di «Westuff», rivista che lavora combinando i vari ambiti della creazione.

[…] la grafica rigorosa, lontana dalla progettazione punk di pubblicazioni italiane come «Punk Artist» e «Focus» e più affina alle riviste inglesi «The Face» e «i-D»; l’attenzione a Firenze, città prospettica e delle idee», con l’intenzione di metterne in luce le qualità e le specificità. A partire dal primo numero ufficiale, la rivista adotta un formato più grande e un taglio monotematico.

Da Felici e maledetti. Che fine ha fatto Baby Jane? Moda e clubbing. Anni ottanta a Firenze, a cura di Bruno Casini, Zona, 2011.

Il bello di quel periodo era che sapevi di essere partecipe di un cambiamento. Non era più la Rivoluzione con la maiuscola che avevi lasciato, insieme agli amici che si eran persi per strada, qualche anno prima. Ma per la grafica, le trasformazioni che si coglievano in quella prima metà degli anni Ottanta non avrebbero potuto andare sotto un diverso nome. Oggi siamo condannati ad una sostanziale contemporaneità: non appena nasce qualcosa di interessante ecco che questo è immediatamente condiviso globalmente (magari con semplice click sul bottone “I like”). Allora lo spirito del tempo aleggiava nell’aria e lo dovevi percepire e rintracciare contando solo sui tuoi organi sensori. Una leggera brezza che spirava dalla Gran Bretagna portava qui da noi l’odore d’inchiostro di riviste come «The Face» e «i-D», rivoluzionando, in breve tempo, uno stantio panorama editoriale. Certo di Neville Brody, l’art di «The Face», non conoscevamo altro che quanto era rintracciabile nelle edicole e nelle librerie di settore, ma era immediata la percezione di una sintonia che ci riuniva a molte esperienze sparse qua e là, in giro per il mondo. Una per tutte: l’approccio sperimentale alla tipografia e al disegno dei caratteri. Non casualmente fin dalla nascita la rivista cult internazional-fiorentina Westuff sarà caratterizzata da un diffuso disegno manuale del lettering. Un type design alla continua ricerca di forme, così come i contenuti tentavano di rappresentare ciò che fino ad allora non era stato meritevole di rappresentazione, in quell’istantanea — flash! è un attimo — di Firenze capitale morale dello stile. Westuff. Roba d’occidente, prima che dichiarare la propria appartenenza a un mondo, a una cultura, assumesse l’odierna connotazione di guerra ideologica.
Era Firenze, eravamo noi, che dai confini dell’Impero alzavamo la voce per dire: «Eccoci qua! Ci siamo anche noi!» E per presentarsi al resto del mondo la veste scelta era quella del rigore e della pulizia formale, con progetti grafici mondati da tutte le superfetazioni punk, progetti quasi algidi, romanticamente pre e post-moderni, tipograficamente contemporanei.

Ed infatti niente avevamo da spartire con l’iconoclastica furia distruttiva del decostruzionismo tipografico di David Carson con la sua wave californiana e la Beach Culture (non per niente, lui, surfista certificato) e al quale, complice il destino eccetera eccetera, avremmo lasciato, qualche anno dopo, in eredità, seppur per un solo numero, il bimestrale dell’Emporio Armani prosecuzione commerciale, di qualità, della sunnominata, e nel frattempo defunta, Westuff. Era un rigore grafico che faceva da contrappunto al disordine esistenziale programmaticamente ricercato e che trovava la sua esplicazione più nazional-popolare nelle notti fiorentine, checché se ne dicesse a proposito della loro esclusività, notti che costituivano la degna conclusione delle giornate della moda di quella kermesse, mai abbastanza rimpianta, che era Pitti Trend. Una grafica per la zona giorno quindi — con i cataloghi per Pitti, Luisa Via Roma, Calugi e Giannelli, per ricordarne alcuni — che si incrociava con l’immagine per la zona notte con nomi che possono ricordare solo maturi cinquantenni: Tendenza, Paramatta, Impero… Quegli anni sono stati una bella palestra d’ardimento per prendere consapevolezza di cosa significasse progettare un’identità grafica che non fosse soltanto andar dietro alla moda del momento (proprio lavorando, bel bisticcio di parole!, proprio per la Moda). Sono stati anche anni in cui è maturato quello spirito critico che nasce dalla banale, ma forse mai abbastanza ripetuta, considerazione che senza un “contenuto” reale non c’è, in definitiva, apparenza che tenga. Considero in fondo un bel regalo del destino se, a distanza di tanti anni, ancora mi trovo, questa volta non solo come grafico, a mandare avanti una rivista dedicata alla visionarietà fiorentina come FFF, Firenze Fast Forward. Firenze avanti tutta.

Progetti correlati:

Emporio Armani Magazine